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Note di regia

Perché mettere in scena il Tito Andronico oggi? Cosa ci racconta? Nel tempo in cui viviamo, si tende a cercare il giusto e 

il colpevole, l'eroe e l'assassino, il simbolo del bene come il simbolo del male, come se nel nostro tempo le parole bene e 

male avessero ancora un senso. Ma dov'è che un buono diventa assassino? E dove il contrario? Da che punto la violenza 

può generare qualcosa di buono e fino a che punto siamo disposti a indagarci per saperlo? Popoli affiancati, cresciuti 

sulla stessa terra, ma pronti a vendicarsi, giustizieri di paesi che impongono la pace torturando e vessando, padri e figli 

proprio come loro in qualche lager del mondo. Ci si abitua a tutto, perfino alla violenza, alle barbarie, e sembra che la 

violenza successiva sia sempre meno peggiore della precedente, perché è la violenza stessa che educa i nostri occhi a 

non sviare lo sguardo e la nostra morale a sprofondare in quel buco nero del “è giusto così”. 

Parliamo di una Roma antica, chiaramente, di un popolo germanico e di regine e tribuni, di imperatori e soldati. Ma 

parliamo di stupri efferati, di umiliazioni e torture, di quel senso mostruoso di normalizzazione, quel sordo stridulo suono 

che ovatta ogni grido di donna e di madre. Un bambino giace sulla pancia del proprio padre, una donna viene stuprata 

nel corpo e nell'anima come bottino di guerra, un figlio morto per ogni proprio figlio caduto. Un codice così lontano, ma 

così mostruosamente vicino, così mostruosamente abituale. E allora il Tito va raccontato, va messo in scena, sperando 

che almeno in quella strana architettura del teatro qualcuno possa gridare basta e indignarsi, perché questo è il limite 

più grande del nostro tempo: non ci indigniamo più davanti all'orrore e alle brutture del mondo. (D. Sacco) 

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